Dopo Svizzera e Italia anche la Germania ha presentato a Milano il progetto del padiglione per l’EXPO 2015. “Uno spazio ampio, sereno, dove c’è posto per le idee”, lo ha definito l’architetto Lennart Wiechell, dello studio Schmidhuber, uno dei partner che hanno firmato il progetto.
Uno spazio con molti luoghi per comunicare: una grande terrazza, una piazza con un ristorante all’esterno; una mostra e un teatro all’interno, per ospitare eventi che i visitatori possono condividere. Uno spazio, infine, dove il paesaggio prevale sull’architettura e l’esterno sull’interno, con forme che richiamano la natura, grandi ombrelli a forma di alberi, forme organiche, gocce d’acqua giganti che sembrano trovarsi ovunque (in omaggio al tema dell’EXPO), semi altrettanto giganti a creare un’atmosfera intensa, un modo di vivere l’ambiente orientato al futuro con offerta costante di interazione e partecipazione; i visitatori diventano fin da subito parte integrante di un’immagine esaustiva e vitale della Germania.
Il padiglione dovrà e potrà piacere a tutti i visitatori: giovani e meno giovani, adulti e bambini, specialisti e semplici curiosi. Come materiali sono stati privilegiati acciaio e legno, proprio perché sono facili da separare, sono interamente riciclabili o meglio senza grande dispendio di energia si possono riassemblare in altro modo e luogo per dare vita a una struttura identica o adattata a nuove esigenze. Il padiglione rimarrà montato 6 mesi e già nel progetto iniziale è previsto come smontarlo (per rimontarlo, come si è detto, o per conservarlo in attesa di nuove occasioni). L’attenzione ai costi energetici e alle energie rinnovabili è simbolizzata da vele candide e di grandi superfici. Una caratteristica fondamentale del progetto è lo spazio dedicato ai giardini pensili, con piante e fiori che vegetano in box facilmente trasportabili. “Siamo stati ispirati dai giardini principeschi di Berlino” ha raccontato Lennart Wiechell “perché è lì che è stata inventata la tecnica di coltivare verdure e fiori negli stessi recipienti usati per il trasporto”.
Il Palazzo Enciclopedico è il sogno di un museo che ospita tutta la conoscenza del mondo, nonché un progetto depositato presso l’ufficio brevetti statunitense il 16 novembre 1955 dall’artista italo-americano Marino Auriti. Un’idea che ha ispirato il giovane curatore Massimiliano Gioni, direttore artistico della Fondazione Nicola Trussardi e regista alle esposizioni del New Museum di New York, per la 55° Biennale d’arte di Venezia; una città che si presta come palcoscenico ideale per eventi di mondaneità internazionali, che merita un viaggio anche durante le avversità atmosferiche, come è successo quest’anno, sotto una persistente pioggia durata per tutta la celebrazione inaugurale.
Tema stravagante che ha tessuto la sua strada senza soluzione di continuità (il piano di Auriti non è stato mai realizzato) attraverso i showspaces, dove opere dello scorso secolo sono state presentate assieme a quelle di nuova generazione. Un’ondata costante di spettatori e code infinite per entrare ai padiglioni come è successo al padiglione tedesco, dove Ai Weiwei ha installato 886 sgabelli volanti o al padiglione danese, dove Jesper Just ha per l’occasione trasformato l’architettura del padiglione in un ambiente immersivo e multi-sfaccettato, che unito al video formano una sintesi.
Inaspettatamente i più apprezzati sono stati Irlanda, Cile e Galles. Oltre al tour de force ai Giardini e all’Arsenale, molti sono stati anche i Padiglioni e le manifestazioni collaterali, che hanno costellato Venezia. Un bell’esempio al Museo Correr con una una retrospettiva di Anthony Caro; all’Isola di San Giorgio con le sculture giunoniche di Marc Quinn; alla Fondazione Swarovski nella Basilica di San Giorgio, John Pawson ha presentato un’elegante scultura: una grossa lente che riflette le ‘Perspectives’ nascoste ad occhio nudo del soffitto; a Palazzo Grassi la fotografatissima installazione-scenografia di tappeti rossi di Rudolf Stingel e per citarne ancora uno, a Palazzo Cavalli-Franchetti tra il Guggenheim e l’Accademia delle Belle Arti (sede per la prima volta del Padiglione Tuvalu) con il poetico e molto trendy progetto ‘Last Train’ dell’artista-designer libanese Ron Arad, sponsorizzato niente meno che da Steinmetz Diamonds.
Dove portano 40 anni di esperienza nel mondo della fotografia? Ovunque riponderebbe candidamente un comune mortale. A 828 m d’altezza replicherebbe Gerard Donovan. Mr. Coraggio, così andrebbe soprannominato per le sue imprese, si è tolto il kandoura, ampio abito lungo tipico della tradizione medio-orientale, e ha optato per un outfit decisamente più confortevole per trasportare la sua preziosa attrezzatura sulla vetta più alta della Burj Khalifa.
La torre, che è il frutto di una joint venture internazionale, supera giganti come la nuovissima Freedom Tower di NY o la CN Tower di Toronto, meritandosi il primato di struttura più alta mai costruita dall’uomo senza però rinunciare ad un’estetica appagante, come dimostrano il tocco e la firma di Giorgio Armani visibili negli arredi di alcuni stabili interni. La pianta del grattacielo, sito in un’area di 2 km2 in corso di edificazione chiamata Downtown Burj Khalifa, vicino al distretto finanziario di Dubai, richiama la forma del fiore di Hymenocallis, molto diffuso nella zona, mentre la sua disposizione crescente lo fa assomigliare a una spirale. Il culmine è un’antenna che ospita un centro di osservazione chiamato, non a caso, At the Top, dove è stato collocato, a disposizione del pubblico, un nuovo tipo di cannocchiale, con annesso schermo LCD che consente di contemplare sia il paesaggio in diretta, sia immagini registrate a diverse ore del giorno o con diverse condizioni atmosferiche.
Proprio da questa piattaforma larga solo 1,5 m l’impavido Donovan ha scattato il suo reportage dal nome Burj Khalifa Panorama, applicazione interattiva che mostra la vista a 360° della sua città attraverso filmati in time lapse e 48 click fotografici da 80 megapixel a cui sono state aggiunte 70 foto singole aggregate come una coperta patchwork per ricreare virtualmente e condividere viralmente le emozioni derivanti da questa esperienza da capogiro. L’impressione che si ha osservando a bocca aperta la sfida di Donovan, è che le immagini -riprodotte servendosi di strumenti innovativi e tecnologici e fortemente sconsigliate a chi soffre di vertigini- ricordano vagamente i fotogrammi delle sonde o dei satelliti da cui è percettibile la circolarità della Terra. È vero che secondo un proverbio cinese non c’è altezza che non abbia al di sopra di sé qualcosa di più alto, ma siamo quasi sicuri che Donovan e il suo obiettivo questa volta siano stati on top of the world.
Michael Janicki nasconde la sua identità e si svela attraverso le sue creazioni. Difficile reperire un’intervista, una dichiarazione, qualche cenno biografico; più semplice interpretarlo guardando il suo account su Vimeo.
Sappiamo che è un artista della Londra casual hipster, specializzato in motion graphics, che concentra la sua expertise nel settore sull’intersezione di ambienti costruiti ad hoc e oggetti di uso quotidiano animandoli in modo insolito. Non si basa su schemi e tecniche studiati al college – li supera – piuttosto si lascia ispirare dalla musica – specie dal sound elegante e nostalgico di Kurt Vile, che con Janicki condivide l’esaltazione per la linearità dello stile – e si lascia influenzare, orientare e stimolare dalla sua città i suoi rumori, la sua architettura, i suoi difetti. E come un cantautore trascrive parole raffinate per omaggiare la sua musa ispiratrice, così Janicki persegue l’originalità della forma e dell’espressione per regalare, oltre a uno spunto di riflessione, una raffigurazione singolare e sensazionale della capitale inglese.
La sua costante ricerca dell’unicità è perfettamente riscontrabile in uno dei suoi latest works: Paper City. Un tour guidato da un occhio unico in una metropoli fragile ed effimera, come quelle contemporanee, fatta di geometrie emergenti erette al momento giusto. Il paesaggio urbano presentato – pieno di idiosincrasie e filmato da un elicottero invisibile che riprende la nascita e la disfatta di ogni elemento, è sterile e asettico con grattacieli, ponti, boschi, montagne, alberi, panchine e strade tortuose che crescono e si ripiegano svelte dopo il nostro simbolico passaggio. Si accartocciano e si sbriciolano per non farsi osservare e vivere, scompaiono veloci sotto il terreno di carta da cui provengono. Ogni figura è accuratamente modellata con un gioco di luci e ombre equilibrato e ben studiato per produrre un movimento fluido e delicato, simile a quello dello skateboard, accessorio sportivo caro all’artista.
Sembra proprio che Janicki abbia trasfigurato in video i pensieri di John Green: è una città di carta. Guardala, guarda tutti quei viottoli, quelle strade che girano su se stesse, quelle case che sono state costruite per cadere a pezzi. Tutte quelle persone di carta che vivono nelle loro case di carta, che si bruciano il futuro pur di scaldarsi. Tutti rimbambiti dalla frenesia di possedere cose. Cose sottili e fragili come carta. E tutti altrettanto sottili e fragili.
È il momento dei ponti. Di recente ne sono stati realizzati o progettati e proposti parecchi, innovativi, artistici o addirittura “magici” forse in omaggio alla loro valenza simbolica: il ponte è contatto e scambio e fra “rivali” ovvero abitanti di rive opposte; il ponte invita alla solidarietà e alla cooperazione più che all’egoismo e all’isolamento, ben oltre alla millenaria semplicità dell’utilizzo pratico. Il pensiero corre inevitabilmente al ponte di Mostar, abbattuto e ricostruito simbolo della Bosnia Erzegovina, tramite fra Islam e Cristianesimo che teneva unita la ex Jugoslavia. O al più venale Ponte Vecchio di Firenze che ospita le botteghe degli orafi.
Schanerloch Bridge Ebnit-Dornbirn
Progettato da un’equipe di architetti austriaci che fanno capo allo Studio Marte.Marte Architects, il primo ponte da raccontare è nuovissimo e attraversa il torrente Schanerloch sulla strada che porta dalla città di Dornbirn al villaggio di Ebnit, in direzione sud – in Austria.
Ispirandosi ai ponti ad arco tradizionali nella zona e sulle Alpi, gli architetti hanno realizzato un’opera massiccia ed elegante al tempo stesso, un profilo gentile leggermente ritorto al centro per seguire la curva e l’angolatura della strada. Il risultato è un’autentica scultura in cemento armato, un’opera d’arte che dal punto di vista dei conducenti in transito si presenta come una strada assolutamente normale, regolare e sicura com’è nello stile austriaco. Visto dalle rive del fiume, in fondo alla gola, rivela invece tutto il suo fascino seguendo le dinamiche della strada di montagna e delle rocce, congelate nella loro impressionante staticità.
Il Ponte luna park di Bordeaux
OMA propone un ponte per ospitare eventi a Bordeaux, una via attraverso il fiume, fantasiosa come un luna park e aperta al traffico in apparenza solo pedonale, in realtà all’occorrenza anche tranviario e automobilistico, con spazi per eventi, feste e manifestazioni. Il premio per la progettazione di questo ponte sarà assegnato in dicembre. Oltre a OMA resta in lizza il progetto di una ditta francese, Dietmar Feichtinger. La realizzazione dell’opera è prevista per il 2018.
Fantasy-bridge sul Tamigi
Oltre Manica, Thomas Heatherwick ha disegnato un ponte per il Tamigi: un giardino pensile che ricorda gli sfondi dei film di Walt Disney, i Beatles di Magical Mystery Tour, Harry Potter e i maghi della scuola di Hogwarts.
L’Euro-ponte di Rotterdam
Un’ultima curiosità: uno dei ponti del tutto di fantasia raffigurati sulle eurobanconote è stato realizzato davvero dal designer olandese Robin Stamm, per una nuova zona residenziale di Rotterdam. Il disegno originale, quello del ponte sugli Euro, era opera del designer austriaco Robert Kalina per rappresentare momenti chiave della storia europea.
Dello studio di architettura australiano McBride Charles Ryan, l’edificio Yardmasters è un gioiello dal motivo stellato, incastonato in una moltitudine intrecciata di binari.
Una costruzione sottile e rettangolare che ospita gli uffici operativi della stazione ferroviaria Southern Cross di Melbourne. Una scatola misteriosa dal design volutamente in antitesi con l’ambiente circostante, risultato di un ampio studio funzionale messo in elaborazione grazie alla constante consultazione con i fruitori finali.
L’edificio ospita per la maggior parte uffici tra il secondo ed il terzo piano, spogliatoi ed una palestra al primo e strutture per la manutenzione e la pulizia al piano terra.
Volkshaus è un pezzo di città nella città, rimesso a nuovo da Herzog & de Meuron. Edificio del 14° secolo nato come maniero, trasformato nel 1845 in una fabbrica di birra e nel 1874 evoluto in sala da concerto e centro culturale molto attivo in Basilea. Nei primi del novecento, grazie alla sua popolarità diventa uno spazio troppo stretto e poco capiente con ampliamento (da bando) da parte dell’architetto Henri Baur. Negli anni ’70, Volkshaus rischia la demolizione, ma sopravvive con la conseguente perdita della sua natura interna per un rinnovo sostanziale, in cui viene cancellato il carattere originale del birrificio e della sala da concerto.
Oggi, grazie agli architetti svizzeri, l’edificio rinasce come albergo, negozio di design e biblioteca. Integrato al linguaggio architettonico originale, innesti di contemporaneità si esaltano con l’insieme, come i lampadari a ciondolo in vetro soffiato messi a nuovo con lampade a LED, il restauro della struttura spaziale distintiva della brasserie migliorata dalla rimozione del ribassato dal soffitto per rivelare le vecchie travi e creare lo spazio utile per ospitare i condotti di HVAC, ovvero apparecchi di riscaldamento, ventilazione e condizionamento dell’aria di ultima generazione e in ultima, di grande effetto, i servizi igienici mappati alle pareti interne e per i corridoi da incisioni seicentesche.
Netto contrasto con l’ambiente circostante è La Luciole Concert Hall situato ai margini di Alençon in Francia, ed opera dei parigini Moussafir Architectes.
Strutture a tamburo apparentemente disposte in modo casuale, rivestite da pannelli bianchi e blu in simulazione di un frammento pixelato di cielo e nuvole dai tipici colori della Normandia. Le tonalità più scure concentrate dove i due cilindri si incontrano, l’effetto complessivo evoca un geyser che collega la terra e il cielo; un oggetto minimalista che emerge dalla terra. Di notte, la tela circolare allungata sopra al tetto dell’auditorium funge da schermo di proiezione per le immagini generate dall’interno dell’edificio.
La Luciole è una sala concerti per 650 persone, costituita da due telai in acciaio cilindrici inclinati ed un recinto di cemento usato per definire le entrate e le uscite di sicurezza. E l’arco d’intersezione dei due elementi segna il confine tra il palco e il pubblico, caratterizzati da sfaccettature cromatiche al prugna.
Immagini di Luc Boegly.
L’archistar canadese, Frank Gehry è agli ultimi ritocchi per il suo primo edificio in America Latina il Biomuseo di Panama.
Andando sul sito del museo, un banner ci avverte che già numerose star stanno visitando il cantiere da Brad Pitt, Al Gore, Jane Goodall ad Angelina Jolie. Il progetto finanziato dalla Fondazione Amador, che si avvale della consulenza scientifica dell’università di Panama e dello Smithsonian Institute, è decisamente ambizioso tant’è che è stato commissionato a un archistar dal calibro di Frank Gehry la cui moglie è panamense.
Questo museo sarà il primo museo scientifico realizzato nel XXI sec. e Gehry ha chiamato a collabore con lui un altro celebre canadese, il grafico designer Bruce Mau –famoso tra le altre cose per aver curato la grafica del libro S M L XL– che si occuperà del design espositivo. Posizionato in prossimità dell’inizio del Canale di Panama, il Biomuseo è una composizione asimmetrica di volumi colorati e diversi tra loro che si sviluppa su tre livelli e ha una superficie di 4000 mq. La struttura portante è costituita da colonne di cemento da cui si dipartono dei rami di acciaio che sostengono le colorate coperture metalliche.
Il museo racconterà la storia della formazione dell’istmo di Panama e la straordinaria biodiversità presente in quel luogo. Sono state realizzate 8 gallerie permanenti, ognuna dedicata ad un tema con al centro una scultura o una ricostruzione; un oggetto che si pone alla congiuntura tra arte e scienza allo scopo di evocare sorpresa e curiosità nello spettatore. Il museo è stato progettato per catturare l’attenzione di diversi tipi di spettatori. Il lettering grande e sintetico, gli esempi ad effetto, postazioni interattive sono state studiate per catturare l’attenzione dello spettatore più distratto mentre per il visitatore più attento che vuole approfondire gli strumenti non mancano.
Ci sarà anche uno spazio dedicato agli allestimenti temporanei, una caffetteria, un negozi e un giardino botanico progettato dalla famosa paesaggista nordamericana, Edwina Von Gal: 287 varietà botaniche in una superficie di 2 ettari. Due grandi acquari accoglieranno le disparate specie acquatiche dei Caraibi e del Pacifico, e inoltre ci sarà il ‘panamarama’, un’area coperta dotata di 16 schermi che proietteranno la storia del luogo in digitale, offrendo ai visitatori anche un racconto audiovisivo. I tetti colorati dell’edificio saranno visibili per chi attraversa il canale di Panama; ma l’operazione di lancio non finisce qui, perchè anche gli aerei di linea panamense avranno un design che rimanda ai tetti colorati dell’iconico edificio.
Scarabocchiare su di una lavagna è decisamente un bel ricordo ed un inappagato desiderio che persiste nel nostro inconscio di adulti. E come si dice: l’occasione rende l’uomo più felice… Qui, al Doodle Bar, in un vittoriano edificio di rara bellezza sulle rive del Tamigi, le pareti interne sono rivestite di lavagna nera, dove è consentito lasciare un messaggio, un disegno, anzi, non si può entrare senza aver fatto la scorta di gessetti bianchi o colorati.
Uno spazio rinnovato dallo studio di architettura Will Alsop, che ha conservato il suo fascino di undustrial della sua vita precedente come un diario antico che si espone attraverso le sue piastrelle originali e il connubio del contemporary in associato ai Street Kitchen, parcheggiati al di fuori del bar che offrono deliziosi piatti di provenienza locale.
Un luogo gestito dalla comunità artistica di Battersea, come pop-up d’arte contemporanea permanente con piante afrodisiache ed architetture commestibili per trarre ispirazioni grazie ad incontri tra creativi fissati ogni mese, dove non c’è bisogno di prendere appunti su un notebook o iPad, perché è il bar la tua tela.