È la notizia del momento… 40 ettari, 17 centri di cultura tra teatri e musei, € 2 miliardi d’investimento iniziale da parte del governo cinese per il nuovo distretto culturale ad Hong Kong da svilupparsi in pieno centro sulla zona pedonale di Victoria Harbours.
Il West Kowloon District, tra cultura e sostenibilità, nei prossimi dieci anni cambierà il volto alla città. Il masterplan, affidato alla celebre “penna” di Foster+Partners dopo un concorso indetto nel 2008 dalla West Kowloon Cultural District Authority, in cui avevano partecipato ben 109 studi di architettura di tutto il mondo, propone un grande City Park di 23 ettari con importanti strutture dedicate alla musica, le arti rappresentative e visive ma anche per il lavoro e la residenza, tutte con viste spettacolari verso lo skyline dell’isola di Central e verso il porto. La particolarità è data anche dal fatto che ogni spazio all’interno dell’ambizioso progetto di urban style sarà curato da uno studio di progettazione diverso. È l’esempio del Museo d’Arte Contemporanea M+, al quale stanno partecipando per la progettazione archistar dal calibro di Toyo Ito, Snøhetta, Renzo Piano, per citarne alcuni.
Anche Art Basel ha puntato gli occhi sull’oriente, che dopo aver acquistato il 60% della Hong Kong Art Fair e fondato il concetto di fiera d’arte come brand, ha trovato dopo Basilea e Miami, proprio qui, al Convention and Exhibition Center, la sua terza sede con 245 espositori da tutto il mondo e più di 2.000 artisti. Secondo il 38enne Direttore della fiera, Magnus Renfrew, il mercato mondiale dell’arte e la globalizzazione estetica si sta sempre più indirizzando verso l’oriente e Hong Kong con i suoi 7 milioni e mezzo di residenti sta semplicemente ampliando il suo pubblico, che ogni anno arriva a toccare i 50 milioni solo di visitatori. Non è un caso che Hong Kong per la sua storia è una città ben distinta dagli altri centri della Cina e soprattutto abituata a guardare avanti e oggi più che mai punta a divenire un hub di riferimento non solo commerciale ma anche critico, estetico e museale.
Il collettivo olandese Droog Design, sempre un passo avanti agli altri, ha deciso di capovolgere il concetto di pirateria in Cina, organizzando una mostra con il Today Art Museum di Pechino e l’Oct Art and Design Gallery di Shenzen e le loro copie di oggetti cinesi nel Hi space, zhen Jia shopping, centro commerciale di Guangzhou.
Mentre le compagnie cinesi e il governo lottano per estirpare la loro fama oramai largamente consolidata di imitatori (tema già affrontato da VdA), il progetto di Droog Design dal nome significativo The New Original suggerisce che il processo di imitazione può andare oltre la mera replica nel momento in cui vengono messi in atto dei piccoli adattamenti che possono rappresentare un elemento di innovazione per quegli stessi oggetti copiati.
Gli oggetti in mostra includono una tradizionale teiera cinese con un manico più robusto e un ristorante cinese all’interno di una vasca per pesci. In totale saranno 26 gli oggetti in mostra che sono stati creati a Shenzen -che Droog ha soprannominato l’epicentro della cultura dell’imitazione- nell’ambito di un workshop organizzato dal Droog Lab. Tra i designers che vi hanno preso parte ci sono Richard Hutten, Ed Annink, Stanley Wong e Urbanus. La Direttrice e cofondatrice di Droog Renny Ramakers ha dichiarato in una recente intervista che si è raggiunto un livello tale di saturazione nel design e nel mercato che è tempo di pensare a come utilizzare tutto questo surplus e usarlo nella progettazione, e che in un certo senso l’imitazione può anche essere vista come ispirazione.
Dal sito MyLittleMarseille evidenziamo un originale loft di coworking, mostre, brunch ed eventi denominato The Carrosserie.
Ambienti caldi e luminosi per quello che un tempo era un’officina per auto. 230m2 con soppalco, travi a vista, piastrelle in vetro, cemento grezzo ed un altissimo soffitto con arredamento minimal e di redesign, tutto nel segno della condivisione d’idee, di espansione della propria rete di conoscenze e luogo di carattere dove ricevere i propri clienti.
Spazio che accoglie lo scambio di pensieri e progetti, dove giornalisti, avvocati, studenti, designer, grafici o architetti hanno il modo di potersi esprimere e confrontarsi. Un ufficio-casa nato dall’estro creativo dei suoi fondatori Christopher e Claire, che affermano ironicamente: “Io lavoro quando voglio, dove voglio” e “Io lavoro tutto il tempo, da solo, sul divano del mio salotto.”
Il nome potrebbe trarre in inganno e anche l’aspetto, ma il ristorante Frankfurt Station si trova a Barcellona ed è stato progettato da Daniel Perez e Felipe Araujo dello studio Denys & von Arend.
Inaugurato pochi giorni fa (3 maggio), il ristorante si ispira ai classici dinner americani degli anni ’50. Infatti, ritroviamo pareti piastrellate e superfici di metallo e in parte – la forma allungata del locale si prestava a questa analogia – si ispira a un vagone ferroviario. Nella sala da pranzo i clienti siedono come su una carrozza di un treno: due file di sedili uno di fronte all’altro con il tavolino in mezzo. Le classiche piastrelle di cermaica 10×10 sono di una tonalità verde che ricorda una piscina. E così nei bagni, dove si alternano i colori giallo e bianco. Il pavimento è in ceramica effetto legno. I muri, dove non ci sono le piastrelle, e il soffitto sono in grigio scuro.
Lo sfondo scuro è punteggiato da lampade industriali per rafforzare l’effetto stazione ferroviaria. Ci sono numerose immagini tra tipografia e pittogrammi alle pareti, così come l’insegna frontale del ristorante, i menù, la segnaletica interna e anche il lettering dei cartelli con gli orari di apertura; tutto parte da un’immagine coordinata chiara e riconoscibile.
ArchitectsParty, l’evento organizzato da Towant, di cui VdA è EventPartner, è giunto al secondo appuntamento dopo quello torinese.
Dal 6 al 10 maggio prossimo, a Roma, seguendo il format di Towant, negli studi di architettura di Agape, Arclinea, Corà Legnami, Dornbracht, Essequattro + nero3, Gaggenau, Kaldewei, Luceplan, Moroso, Stone Italiana e Tubes sono in programma aperitivi e attività di networking per scambiarsi idee su progetti e soluzioni.
Architetti, designer, giornalisti di settore, personale delle aziende partner, in un’atmosfera informale e semplice entreranno in contatto e relazione, in una specie di contaminazione creativa tra professionisti in relax.
Ecco le immagini dell’ArchitectsParty 2012.
Freedom Room è un progetto sviluppato da Aldo Cibic, Tommaso Corà, Marco Tortoioli Ricci in collaborazione con il carcere di massima sicurezza di Spoleto e Co.mo.do. una cooperativa che dal 2003 ha cominciato le sue attività educative nel carcere per formare figure professionali nei campi del design della grafica e dell’editoria.
Co.mo.do e Cibic hanno cominciato nel 2009 a collaborare per analizzare le opportunità che il design offriva per migliorare i lavori nel carcere. Una delle premesse da fare è che la maggior parte dei mobili che si trovano nelle prigioni italiane sono prodotte da una falegnameria nel carcere di Spoleto. Lavorando con un gruppo di detenuti addetti alla falegnameria, che in questo caso sono stati dei consulenti del progetto, sono venute fuori nuove idee sull’abitazione a basso costo, su oggetti che devono essere multifunzionali, su spazi flessibili e adattabili a diversi utilizzi.
La cella in fondo è un modulo spaziale che deve essere più ambienti in uno e così gli oggetti devono per forza di cose essere adattati ad usi differenti. Così è nato il progetto Freedom Room: uno spazio più vivibile concepito per essere compatto e funzionale e adatto ad incontrare nuovi bisogni pur mantenendo la dimensione originale della cella 4×2,7 m. Un punto di partenza per immaginare le nuove celle italiane, ma potrebbe essere il modulo base di un hotel a basso costo, di un ostello della gioventù o di un’abitazione economica. Il primo prototipo di Freedom Room è stato esposto a Milano in Triennale durante la settimana del Salone del Mobile.
Silo 468 di Lighting Design Collective guidato da Tapio Rosenius, ha vinto nel 2011 il 1° premio al concorso internazionale di Urban Light Art Installation per l’illuminazione urbana della capitale finnica.
I progettisti hanno convertito un vecchio silos (il n. 468) in un display luminoso ed in un affascinante spazio civico. La luce naturale, il vento e i riflessi di luce dell’acqua circostante caratterizzano i principi dell’idea di light architecture. L’enorme volume in acciaio (36m di diametro e 17m di altezza) è stato perforato da 2012 fori, numero prettamente voluto in memore all’anno in cui Helsinki è stata Capitale del Design nel 2012.
Gli interni sono dipinti di rosso scuro creando un gioco di ombre screziate e dinamiche. Di notte 1.250 LED bianchi vengono controllati da un software che crea un sistema di particelle che simula il movimento del volo degli uccelli, degli insetti o dei pesci. Un’animazione d’effetto necessariamente imprevedibile con una serie di movimenti leggeri che danno allo spettatore una rappresentazione visiva delle percezioni meteorologiche nella città.
Nel 1951 Le Corbusier completò la sua celebre “unite d’habitation” marsigliese, la Cité Radieuse: un imponente sistema abitativo di 337 appartamenti la cui forma evoca un gigantesco piroscafo urbano ancorato in un parco.
Nel 2010 il designer marsigliese Ito Morabito in arte Ora-Ïto – celebre per i suoi lavori con Renault, Louis Vuitton, Swatch, Adidas – ha rilevato la terrazza della Cité Radieuse trasformandola in un centro d’arte contemporanea. Dopo 3 anni di lavoro Ora-Ïto e lo Stato francese hanno riportato la struttura alla forma originale, progettata da Le Corbusier e poi, rimaneggiata nel corso degli anni ’50.
Lo spazio sarà la sede del MAMO, un centro d’arte contemporanea con un caffè, un negozio e una residenza per gli artisti. Il nome richiama le iniziali di Marseille Modulor, ma è anche un omaggio al MoMA di New York, che ha in programma un’importante retrospettiva sull’architetto svizzero: “Le Corbusier: un atlante del paesaggio moderno”. Il MAMO verrà inaugurato a giugno 2013 in occasione delle celebrazioni di Marsiglia come capitale della cultura 2013, con la mostra dello scultore Xavier Veilhan che realizza installazioni architettoniche site-specific.
Il Museo che salta decisamente all’occhio con i suoi 200 m di lunghezza, sorge nel fiorente quartiere di Harbin e sembra un’anomalia rispetto ai suoi dintorni densamente popolati.
Il Museo incarna alcune delle idee formali e concettuali che definiscono la poetica dello studio di architettura – con sede a Pechino – MAD, ovvero il portare in un contesto quotidiano un’espressione architettonica che parte da un concetto naturale ma poi lo sviluppa in maniera astratta. Così, in questo edificio di 13 mila mq le frontiere tra solido e liquido si confondono con un riferimento al paesaggio locale.
L’esterno è coperto da lastre di alluminio che riflettono gli esterni e la luce che cambia. I muri esterni assicurano la minor dispersione di calore possibile mentre le aperture che seguendo la forma movimentata sono disseminate nei punti più strategici assicurando così sufficiente luce naturale alle tre grandi hall all’interno. Il museo ospita sculture lignee locali così come dipinti di paesaggio con raffigurazioni dei rigidi inverni locali. Il museo nel contesto urbano è un punto di rottura. In un certo senso rompe la noiosa griglia urbana circostante rivitalizzando l’intorno con una nuova attrattiva culturale.
In Georgia, Batumi, sulle rive del Mar Nero, è una cittadina in rapido cambiamento, soprattutto per l’architettura contemporanea che sta cambiando il suo volto e grazie anche ai numerosi Archistar che vi costruiscono.
Giorgi Khmaladze, un architetto locale, ha progettato in una delle zone di recente urbanizzazione della città, un volume polifunzionale vetrato dalla forma sfaccettata con un giardino all’interno. Il volume, volutamente costruito in uno spazio ristretto, ha scaturito questa forma bizzarra; un oggetto notevole che si estende per diventare la pensilina di una stazione di rifornimento. Dal lato opposto c’è l’accesso fiancheggiato da due vasche d’acqua a un Mac Donald. Dalla lobby del ristorante si sale e i tavoli sono disposti sulle varie terrazze fino ad arrivare ad uno spazio semi circolare bordato da un giardino interno e in salita poiché, si trova sulla parte superiore della pensilina che copre il distributore.
L’architetto ha saputo sfruttare i diversi spazi incastrando diverse utenze nello stesso volume e allo stesso tempo ha saputo distinguerli tramite i diversi accessi al pubblico, come quelli a livello del piano terra, nella parte opaca (rivestita di piastrelle) tra il Mac Donald e il distributore, dove sono contenuti i servizi.