Redazione

Broken Hill | Lego Forest

50 anni e non li dimostra! LEGO li festeggia in giro per l’Australia con una serie di installazioni. La più recente è stata realizzata, dal 2 al 12 luglio, nella cittadina rurale di Broken Hill nel New South Wales.

Increduli, i residenti si sono svegliati in una foresta magica, adornata da 15 pini di gomma alti 4 metri e da un set di altrettanti 15 fiori, 66 volte più grandi degli originali delle celebri costruzioni. Giocattoli viventi in un territorio iconico e vibrante come il Living Desert; una riserva spettacolare tra colori di terra rossa e cieli azzurro intenso.

Mentre nel mese di aprile, la Foresta è stata circondata dal cemento di Martin Place nel centro di Sydney, dove è iniziato il Lego Festival of Play; un progetto che comprende varie iniziative tra cui uno spot in stop motion dedicato alla storia del marchio danese nel paese dei canguri, da quando il venditore John Peddie era arrivato nella capitale nel 1962.

Immagini per gentile concessione di LEGO®.

Santpedor | S. Francesc di David Closes

La letteratura in tema di restauro architettonico, sul senso spaziale –contemporaneo- del patrimonio antico e storico da recuperare è infinita. Né mai cesserà il dibattersi sull’atteggiamento progettuale più appropriato da adottare quando ci si confronta con la storia. Per nostra grazia, avremo sempre di che discutere e schierarci tra posizioni teoriche più o meno individuali, che siano fan o detrattori del romanticismo piranesiano.

L’esempio della chiesa di San Francesc di Santpedor sembra non volersi impegolare in nessuna disfida all’ultimo rudere. Parla da sé e fa pensare. Apre uno “scenario metodologico” enorme nella semplicità del progetto, nella sua disinvoltura: come se “fare così” fosse stato sempre possibile, quasi naturale. (E allora perché nessuno l’ha mai fatto fin qui?)

C’era un rudere. Poco importa come lo sia diventato, sebbene la storia da cui proviene abbia già di per sé un valore (assoluto) come convento di francescani di fine Settecento. Poco importano le vicende che hanno portato a demolire il convento, a lasciar in piedi la chiesa, a far diventare la chiesa un deposito abusivo di auto dismesse, né quanti terremoti abbiano causato i vari crolli, dalla copertura alle murature alla scarnificazione di quel che era rimasto della la chiesa di un convento.

Importa guardare con gli occhi dell’architetto, che lì dentro ha letto lo spazio e la (direzione della) luce tra le sterpaglie e le carcasse delle macchine rotte. Importa provare a simulare quel che l’architetto ha “sentito” stando dentro in quel “fuori”. Importa vedere come può risolversi la contraddizione di riportare in vita un luogo che sembra finito –fermo- sospeso nel tempo, che appare come mai più utilizzabile. La nuova architettura recupera quanto possibile delle sembianze fisiche rimaste e ci si accomoda dentro. Ci si modella dentro spingendo fuori volumi, un po’ qui e un po’ là. Dribblando crolli, fori, buchi, come un racconto nuovo, contemporaneo, che attraversa la storia del luogo, la illustra e la rispetta. Tutto nasce intorno allo spazio interno originario, mantenuto come riferimento immodificabile. Dall’alto proviene una luce insolita: un’apertura irregolare e fuori asse, come “stracciata”, è la traccia “architettonica” di un crollo in copertura, origine e approdo della nuova chiesa di San Francesc di Santpedor.

Testo Emilia A. De Vivo.
Foto Jordi Surroca per David Closes Arquitecte.

Guadalupe | Endémico di Gracia Studio

Endémico Resguardo Silvestre di Gracia Studio, è un hotel di venti stanze/cellula, di 20 mq ciascuna, disposte –disseminate come sassi- sul pendio della collina nella Valle del Guadalupe, una delle regioni del vino più pregiate del Messico.

Cellule come stanze e stanze come capanne. Ovvero come oggi potrebbe pensarsi una capanna: impatto minimo al paesaggio e al terreno; materiali leggeri e naturali in essenza e colore; stile discreto dell’architettura, che sembra “appoggiarsi” al suolo, senza pretendere di disturbare l’ambiente in un (non necessario) radicamento. Le cellule-capanna si librano a sbalzo, in quota, grazie ad un sistema palafitta in acciaio che le aggancia al terreno per la superficie più ridotta possibile in un dichiarato principio (etico e architettonico ) di “non interferenza”. Unica concessione “estetica” il deck in tavolato con poltrone e tavolo, pronti lì per un bicchiere di vino al tramonto o un dopocena a scrutare il buio della valle.

Una capanna, anche la più lussuosa, è –quasi- effimera. È il primo segno di “casa” dell’uomo e per questo ne raccoglie la vita materiale e quella dei sogni. Tutto può racchiudersi in una capanna, tutto può esservi custodito, a patto che resti vuota, perché tanta la materia da vivere e sognare nel suo spazio-rifugio. Le capanne di Endémico fanno questo: custodiscono senza ingombro, si riempiono senza materia. Invitano a lasciar fuori tutto ed entrare nel paesaggio chiudendo la porta.

Autore: Emilia Antonia De Vivo.

Londra | The Shard di Renzo Piano

Lo scorso 5 luglio si è finalmente inaugurato con una cerimonia in pompa magna alla presenza del primo ministro del Qatar e del principe Andrew Duca di York, con qualche inevitabile polemica che accompagna sempre le grandi opere delle archistar, il grattacielo progettato da Renzo Piano e soprannominato The Shard.

Lo stato del Qatar è tra i maggiori investitori nel progetto del grattacielo alto 309,6 m, al momento l’edificio più alto d’Europa e il 45° del mondo. L’edificio si erge sulla sponda sud del Tamigi in un punto strategico della City vicino ad altri simboli della città londinese come la London Eye, il Tower Bridge e il Gherkin, e al centro di in un quartiere interessato da un generale processo di rinnovamento. The Shard si inserisce nell’area di Southwark, il nuovo quartiere che si sta formando attorno alla London Bridge Station, uno dei maggiori snodi infrastrutturali della città. Fino a pochi anni fa questa zona era considerata una periferia industriale mentre ora è uno dei luoghi più frequentati, con opere come la Tate Modern di Herzog & De Meuron, il Neo Bankside di Richard Rogers, il More London di Foster e il Riverside Walkway, che conduce fino al Design Museum di Terence Conran.

La torre è stata paragonata più volte dallo stesso Piano ad una sorta di città verticale: 87 piani di cui 72 pubblici a destinazione mista; uffici dal secondo al 28°piano, ristoranti e negozi dal 31 al 33, più un hotel di lusso. Il 5 stelle Shangri-La Hotel dal 34 al 52, e appartamenti di lusso -si parla di un costo medio di 50 milioni di sterline- dal 53 al 65; il punto più alto ospiterà una piattaforma panoramica che offre una vista di 360 gradi su Londra. The Indipendent però, scrive che finora nessuno degli spazi disponibili è stato prenotato.

The Shard, pur essendo un edificio interamente rivestito in vetro sarebbe in grado di risparmiare oltre il 35% dell’energia richiesta dalla climatizzazione dell’edificio. Questo risultato è stato ottenuto grazie ad un’attenta progettazione e ad una doppia “pelle” intelligente, che limita l’apporto di calore massimizzando l‘illuminazione naturale. Il 20% dell’acciaio utilizzato proviene dal riciclo e il 95% dei materiali scartati durante la sua costruzione è stato a sua volta riciclato. Al suo interno sono stati disposti sistemi di ventilazione naturale, tramite apposite aperture verso l’esterno, che serviranno ad arieggiare i giardini d’inverno i presenti nell’edificio. Per rivestire l’edificio sono stati utilizzati circa 10 mila pannelli di vetro. La “pelle” di vetro dell’edificio riflette la luce e il cielo che cambia consentendo così all’edificio di cambiare aspetto a seconda del tempo e delle stagioni. ?Si è stimato che the Shard diventerà il luogo di lavoro per circa 7mila persone, mentre circa 200mila utenti graviteranno ogni giorno intorno all’edificio.

Renzo Piano ha dichiarato che la forma piramidale dell’edificio  segue il decrescente peso delle funzioni (uffici, hotel, appartamenti) e allo stesso tempo il pinnacolo che si eleva nel cielo “ricorda le guglie a spirale delle chiese di Londra costruite dall’architetto di St. Paul, Christopher Wren, come precisi segnali urbani nella ricostruzione della città dopo il grande incendio del 1666“.

Londra | National Theatre Bar di Propstore

Il Summer Pop-up bar ristorante del National Theatre 2012 quest’anno è particolarmente attraente. Lo ha allestito Propstore, il magazzino (dei fondi di magazzino) dei set cinematografici più famosi di ogni tempo.

Propstore è un’idea di Stephen Lane nata dalla sua passione per il cinema e dalla voglia di collezionare oggetti, costumi e arredi utilizzati sulle scene dei suoi film preferiti. Nel tempo si è costruito una sorta di archivio ibrido tra il pop, il trash, l’arte e i cimeli dimenticati. Dal sito web di Propstore è possibile selezionare il film che più ci piace e accedere alla vetrina di quanto Stephen e la sua banda di archeologi del cinema, sono riusciti a recuperare dai set dismessi e dai magazzini impolverati delle case cinematografiche. C’è il vestito che indossava Keanu Reeves in Matrix Reloaded (confrontabile con le scene del film in allegato). C’è l’ascia appartenuta a Jack Nicholson in Shining; ci sono tutti i mostri e i costumi della varie serie di Alien. E infinite altre cianfrusaglie provenienti dai film più impensabili. Nel pop-up bar del National Theatre c’è il coccodrillo di Peter Pan, i lampadari dell’epoca di Frankestein.

Una zona “salotto” ricavata con poltrone e cuscini del National poggiati su cassoni con le ruote. Il banco del bar è un vecchio tavolo da biliardo con i piedi poggiati su pile di libri. Sui tavoli snack, sotto vetro, si leggono le sceneggiature insieme a mappe, disegni e schizzi delle scenografie di film di ogni genere. C’è la bicicletta del set di “A Matter of Life and Death” -1946- con David Niven e Kim Hunter, parcheggiata lì, sul tavolo. L’insieme è di certo bizzarro, stravagante, ma il risultato dà la sensazione di un ambiente stranamente familiare, adatto a qualsiasi “scena” della vita reale, che possa svolgersi lì in quel momento, nella propria personale giornata.

Propstore ha due sedi: a Londra (in Hertfordshire) e Los Angeles. Il pop-up bar è aperto fino al 29 settembre davanti al National Theatre, a Southbank Centre. Nei fine settimana c’è musica dal vivo fino alle 2 di notte.

Autore: Emilia Antonia De Vivo.

Genolier | ESGE di IPA

Progetto da primo premio degli architetti svizzeri IPA, i quattro piani del blocco della ESGE – Secondaire Ecole de Genolier, è un’estensione di una scuola secondaria esistente e di un ponte di vetro che collega l’edificio principale al secondo piano.

In un luogo tra cielo e terra, dove regna solo la bellezza del verde, il suono dolce del fruscio delle foglie mosse dal vento, e un ambiente affascinante per la sua serenità, in armonia con tutto ciò che lo circonda anche con l’idea che sia un luogo di apprendimento.

L’edificio si sviluppa in silenzio nella foresta della Svizzera romanda, di dimensioni modeste e in termini di sostenibilità è al top per la manutenzione, la scelta dei materiali che costituiscono l’involucro esterno e per la copertura resistenti alla forte umidità generata dal vicino bosco. La facciata con finestre modulari è stata ispirata dalle forme computerizzate anni ’80, tipo il gioco Tetris, in realtà il modello ripetitivo ha le sue radici nell’ambiente: uno zoom macroscopico delle foglie ci offre una pixelization per il quadro ritmato delle aperture.

Gli interni variano in base alla luce delle quattro stagioni: autunno in arancione per il livello sotterraneo, l’inverno in marrone all’ingresso, verde per la primavera al primo piano ed il verde-azzurro al secondo piano. Pareti e pavimenti hanno un programma di colore diverso per distinguere i vari spazi: aule, palestra, bagni e foyer d’ingresso. Anche qui i colori traggono la loro origine dalla vicina foresta, come il cemento è marrone per evocare i tronchi degli alberi e i bagni blu per simboleggiare l’azzurro del cielo.

Woolwich | Poligono di Magma Architecture

Il nuovo poligono di tiro a segno delle gare olimpiche 2012 è stato appena completato. È formato da tre padiglioni bianchi, rigonfi come se respirassero: tre edifici in microfibra visibilmente in tensione, per la spinta generata verso l’esterno da enormi oblò-ventosa, distribuiti omogeneamente sulle facciate e in copertura. I cubi bianchi riflettono la luce da lontano e danno aria di festa al paesaggio urbano di Woolwich, come fossero grandi chioschi ad una sagra. Il poligono, infatti, non si trova nel Parco Olimpico ma sul sito delle originarie Royal Artillery Barracks.

L’immagine bizzarra è stata paragonata ai tentacoli di un polpo, alle tracce di una mitragliatrice (aerea) gigante, a dei funghi geometrizzati. Magma Architecture –loro- sono di Berlino, e oltre che in Germania, lavorano molto anche nel Regno Unito. Fedeli al nome, quasi in senso strettamente figurativo, derivano spazi ed edifici da una libera interpretazione di forme magmatiche, come auto-performanti, originate da immaginarie masse amebiche informi. Non è la prima volta che i Magma esplorano particolari proprietà di un materiale in flessibilità, resistenza e plasmabilità.

Non è la prima volta che usano il colore come elemento distintivo, come strumento per comunicare (qui il rosso, il blu e il fucsia un colore per ogni edificio per i “buchi” sulla pelle bianca). Né la prima volta che i Magma interpretano il sito specifico con una forma specifica, in maniera (apparentemente) empirica. Piuttosto che generate da un mero grafico geometrico studiato al computer, le forme architettoniche si presentano come scultoree –morbide- ed amorfe, ottenute dalla tensione tra punti (o fori) strategicamente localizzati su membrane di fibra sintetica. Così nel Padiglione espositivo di Haed-In a Berlino (con mega-fori in cui letteralmente si infilava la testa per guardare), e così pure nel padiglione di Kneaded Mass ad Amburgo, dove fori, ancora fori, servivano a puntare lo sguardo, ad orientarlo sugli oggetti.

Nel padiglioni del tiro a segno, le asole sono diventate (anche) occasione per risolvere l’impianto di ventilazione/aerazione, le aperture e gli ingressi. La struttura verrà completamente smantellata e riassemblata a Glasgow per i Giochi del Commonwealth del 2014.

Autore: Emilia Antonia De Vivo.

Londra | Serpentine di Herzog&De Meuron

Il Serpentine Galllery Pavilion 2012 quest’anno lo hanno fatto Herzog & De Meuron insieme ad Ai WeiWei.

Hanno deciso di scavare più che costruire: il già-fatto è più del da-fare, va dunque conosciuto meglio e raccontato ancora. Hanno deciso di scavare le fondazioni degli undici padiglioni che dal 2000 li hanno preceduti. O meglio i resti, i frammenti di quelle costruzioni, senza sapere cosa avrebbero trovato, questo è il senso di tutto: non tanto dare forma ad un significato (tema d’anno del concorso Serpentine), non tanto creare un oggetto, ma trovarlo -quel significato- nell’oggetto che c’era, nelle forme fatte e abbandonate, di certo mai viste perché a ciò non deputate, in quanto sepolte. Per ogni vecchio padiglione ora c’è una colonna a simbolo di quel che c’era.

I visitatori questa volta dovranno guardare sotto il prato della Serpentine, se vorrano capirci qualcosa, sarà lo scavo “archeologico” a raccontare ed esplorare la storia nascosta dei suoi padiglioni estivi. Lo scavo è profondo 5 metri fino a raggiungere la falda acquifera sottostante. Stratificazione fisica nella stratigrafia del terreno e storica, nella stratigrafia degli anni, attraverso le forme e i materiali diversi, dei padiglioni che hanno scandito gli undici cicli di un concorso unico al mondo, inventato nel 2000 dalla Serpentine. Il lavoro è stato strutturato per fasi di “lettura” -catalogazione ed identificazione dei ritrovamenti- per cercare di capire a cosa siano appartenuti, a quale padiglione, risalendo a quelli, dai ferri, dalla loro de-formazione, dal colore, (da quanta ruggine li ha corrosi nel tempo?). Sostanza del lavoro: rendere visibile l’invisibile: l’acqua sotterranea e le tracce sepolte, alla stessa stregua degli impianti di servizio urbani, reti telefoniche, elettriche, idrauliche. Dal groviglio alla forma. La forma è data, basta trovarla e renderla conoscibile, esperibile. Un paesaggio unico– diverso – da qualsiasi cosa si sarebbe potuto inventare ex novo.

Valenza psicoterapeutica collettiva nel lavoro analitico di Ai Weiwei ed Herzog&DeMeuron: voltarsi indietro –scavare- per osservare le azioni compiute in passato, e poterlo fare con distacco e senso critico. Accettare nel percorso a ritroso, che oggi quelle azioni sono diventate “altro”, magari brutte, aggrovigliate, indistinguibili, ma interessanti “insieme” –collegate- inaspettatamente l’una all’altra, nel processo in cui si sono costituite. 

Lo scavo ha un tetto come nei cantieri archeologici. È però un tetto d’acqua, come a recuperare la pioggia o l’acqua di risalita dalla falda appena scavata. Piattaforma/contenitore, lente riflettente i cieli di Londra. Il tetto-vasca verrà svuotato periodicamente in occasione di eventi. La copertura tetto-acqua poggia sulle colonne erette a testimonianza degli undici pregressi padiglioni. La dodicesima colonna rappresenta il nuovo padiglione.

La fisicità materica e le sensazioni tattili sono affidate all’uso del sughero, tutto è in sughero, pavimenti, rivestimenti e sedute. Il sughero assorbe colpi e rumori, è confortevole, ci si può sdraiare sopra. Al sughero il compito di comporre l’eterna lotta tra natura e artificio, di riporta nel reale l’astrazione delle forme geometriche.

L’impatto è assolutamente originale, inaspettato: l’oscurità, l’assenza di colore, i passi silenti e l’odore sono le conseguenze “poetiche” di un progetto, quelle che trasformano l’Architettura in Arte. Lo stesso Herzog dichiara di sorprendersi del silenzio che si avverte stando dentro l’anfiteatro: non si sentono i rumori della strada, tutto è ovattato, grazie al sughero. Al termine dell’intervista ci chiede un po’ in ansia, se quella scelta, del sughero, ci piace. Domanda insolita da parte di un maestro, che disvela tutta la bellezza dell’incerto, dell’insondabile, che sottende un’idea.

Come testimonia Christine Murray di Architects Journal, l’odore fragrante del Serpentine Pavilion di quest’anno è stato il tema del discorso di apertura tenuto da Richard Rogers, all’afterparty della serata inaugurale. Rogers ha descritto la sua prima visita come una delle esperienze più belle che abbia mai fatto: “Un padiglione incredibile, un buco e un disco in dialogo con il parco, una grotta primordiale, un spazio-utero, l’odore del tappo, non lo dimenticherò mai”. “L’odore rimanda alla sostenibilità” Con così tanti architetti in visita al padiglione, si può scommettere che l’attenzione a questo materiale aumenterà in maniera esponenziale.

È la prima volta che il Serpentine Pavilion viene progettato a più mani ma la scelta è voluta per segnare la continuità tra i Giochi Olimpici di Pechino e le Olimpiadi di Londra. Ai Weiwei e Herzog & De Meuron portano a Londra la staffetta dell’arte che incontra l’architettura come nel “nido cosmico” dello stadio olimpico di Pechino.

Autore anche delle foto: Emilia Antonia De Vivo.

Ruapehu | Knoll Ridge Cafè di Hurris Butt

Prendiamo un caffè al vulcano? Il Knoll Ridge Cafè, di Hurris Butt Architecture, è sul monte Ruapehu, il vulcano attivo più grande della Nuova Zelanda.

Il valore del caffè in questo caso può coincidere con il posto in cui viene degustato: la posizione remota, la vista che da quella quota decolla, la morfologia aspra del sito. Le stesse ragioni, oltre il caffè, sostanziano il valore del progetto. L’architettura prende forma -prima di ogni cosa- dalla ricerca delle soluzioni più appropriate e convenienti ai problemi di organizzazione logistica.

Dalle fondazioni al montaggio degli infissi, il progetto evolve attraverso una costante verifica di fattibilità delle fasi di costruzione, in un continuo feedback tra l’idea architettonica e l’effettiva possibilità di renderla nella sua purezza, al momento della realizzazione. Preoccupazione ovvia sempre, ma in un posto come Ruapehu, l’ovvietà non è categoria contemplata. Arrivarci è difficile, costruire qualcosa su un terreno così ripido lo è di più. Farlo in tempo, prima che la stagione delle nevi possa intervenire a immobilizzare tutto, è la sfida dell’uomo sulle stagioni –imprevedibili- della natura. Si decide così di compiere la mission impossibile tutta con l’aiuto di un elicottero.

<L’intero edificio, dalle travi di fondazione, ai pannelli a pavimento alle sezioni del tetto e delle finestre, è stato suddiviso in un sistema modulare di pannelli, in modo da consentire il trasporto, il posizionamento e il montaggio sul posto, tutto in elicottero. La maggior parte dei componenti è stata progetta accuratamente per non superare il limite di carico elicotteri pari a 800kg>. Questa la logistica. E poteva bastare per apprezzare la perizia costruttiva ad alto contenuto tecnologico e la particolare sensibilità all’impatto ambientale del progetto. C’è di più. Come raramente succede, le istanze (e le soluzioni) pragmatiche nel Ridge Knoll scompaiono, per dissolversi nei valori alti dell’architettura, dove spazio e luce vanno dritti alle corde emotive della percezione, anche quella più distratta.

C’è il prodigio tecnico della piattaforma a sbalzo nel vuoto; c’è la tattilità del legno, scelto come materiale prevalente (e mai declinato in stile convenzionale da baita montana); intere pareti sono trattate a vetro in taglio termico al 100% (calibrate per un vento fino a 200km/h e temperature sotto zero). Grazie a questo, ma oltre questo, l’edificio diventa un guscio leggero da cui esperire il contatto ravvicinato con la montagna. Il paesaggio è il vero “perimetro” del luogo, mai sopraffatto da tentazioni gestuali di maniera. A est il Ridge Pinnacle, e poi le pareti rocciose (o innevate) di origine vulcanica e poi lo strapiombo a vertigine dal quale il Knoll sembra voler spiccare il volo. L’ambizione del progetto di raccogliere ogni fuga prospettica intorno come in un caleidoscopio, sembra riuscita in pieno.

Il Ridge Knoll è (anche) il punto di ristoro del Campo Sci Whakapapa, nel Parco Nazionale del Tagariri, ma questo è secondario. Il viaggio può durare un giorno intero al cambiare della luce, seduti a leggere o per un caffè al Ridge Knoll.

Autore: Emilia Antonia De Vivo.

Foto di Simon Devitt

Londra | Fotografi Gallery di O’Donnel+Tuomey

La casa della fotografia di Londra ha riaperto la sua sede ufficiale a Soho dopo due anni di lavori di O’Donnel & Tuomey Architects. Il nuovo edificio nasce letteralmente da quello vecchio, sembra spuntargli da dentro, come se il precedente l’avesse da sempre contenuto.

Il progetto originario prevedeva la delocalizzazione dalla originaria fabbrica tessile di Ramillies Street in cui si trovava, ma per ragioni di budget fu deciso di intervenire sull’edificio esistente. Il nuovo volume sembra esprimersi in un cambiamento cinetico, dall’edificio in mattoni rossi alle aggiunte soprastanti sagnate da superfici compatte grigio antracite. Si leggono le tensioni di quel cambiamento, i mutui aggiustamenti, come in un dialogo tra due organismi nel farsi posto l’un l’altro: negli spazi, nelle prospettive, nel disegno delle facciate, nelle superfici, come in una crescita, in un cambio di pelle.

L’immagine d’insieme è minimale nelle geometrie: il “combattimento” tra l’edificio ospite e l’intruso si risolve in giunti e accostamenti di particolare delicatezza. La visione può anche scindersi, che si decida di guardare solo le masse grigie o solo il basamento in mattoni rossi. Colpisce su tutto l’armonia con cui si conclude in sommità l’incastro tra i volumi, dove la parete finestrata a doppia altezza, ricalibra le masse con la trasparenza del vetro, e rimanda a un grande obiettivo puntato sul paesaggio urbano. Il contrasto cromatico attrae fin da su alle scalette di accesso a Ramillies Street da Oxford Street; anzi, ora nelle pareti vetrate dell’edificio ad angolo, si specchia il richiamo dell’insegna bianca in fuori scala: tutto torna, tutto si tiene quando nei dettagli inaspettati ricompare la qualità del pensiero architettonico. È lecito pensare ad una lettura “fotografica” operata dal progetto sul contesto urbano. Il grande taglio vetrato al piano terra “inquadra” letteralmente lo spazio interno del caffè e l’incrocio tra le strade lì davanti, l’uno verso l’altro.

Il “Digital Wall” disposto in mega schermo sulla parete all’ingresso è totalmente leggibile dall’esterno, si “inquadra” nella vetrata, può essere osservato comodamente anche da lì, mentre racconta l’evoluzione della fotografia dalle reflex al mondo digitale. Nelle gallerie ai piani superiori vale lo stesso. Gli spazi espositivi opportunamente calibrati in oscurità prevalente per valorizzare le opere esposte, si aprono (inquadrano) sulle strade sottostanti in una proiezione che nella penombra acquista forza magnetica, attrae allo stesso modo di una mega stampa esposta alle pareti. Il gioco a tre livelli per quota, spazio e materiali che si scorge percorrendo le scale tra il terzo e il quarto piano vale tutta la composizione. C’è dentro la percezione in movimento (la scala), la vista dall’alto dello spazio espositivo (dietro la vetrata delle scale, ma ancora interno) e poi le finestre del palazzo di fronte e la strada più giù, oltre la seconda parete vetrata. Una sequenza di spazi e “filtri” ad effetto spiazzante come la lente ottica di una macchina fotografica.

Autore: Emilia Antonia De Vivo.

Scroll to top