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Wolfsburg | Porsche Pavilion degli HENN

L’edificio è l’ultimo arrivato nella Città dell’Auto Autostadt a Wolfsburg un parco tematico dedicato inizialmente alle automobili della Wolkswagen; si trova infatti dove c’era un vecchio impianto produttivo del celebre marchio tedesco. Ora vi trovano posto numerosi padiglioni di altri celebri marchi automobilistici. Il padiglione della Porsche si trova giusto di fronte al padiglione della Volkswagen e offre 400 mq di spazi espositivi. La sua silhouette lo distingue, le sue linee dinamiche ne fanno un oggetto scultoreo che rimanda alle caratteristiche proprie del marchio Porsche.

Un rivestimento bianco opaco di acciaio inossidabile riveste tutta la struttura dando  l’impressione che sia un oggetto unico omogeneo, nonostante cambi sempre a seconda dell’angolo della visuale o delle condizioni del tempo. All’ingresso una sorta di pensilina si crea grazie ad uno sbalzo di circa 25 m che si estende sopra l’acqua della laguna. Questo spazio è connesso visivamente al paesaggio circostante ma è una sorta di anfiteatro sull’acqua per poche centinaia di persone. L’architettura degli interni e degli esterni del padiglione è stata curata dallo studio HENN. L’area esterna al padiglione è stata invece progettata dallo studio di architettura del paesaggio WES per far sì che si integrasse con il resto del parco.

L’involucro dell’edificio utilizza una tecnologia simile a quella delle costruzioni monoscocca usata per strutture leggere nell’industria automobilistica e aerospaziale e oltre ad assolvere allo scopo estetico di dare un’omogeneità visiva al complesso, allo stesso tempo agisce come una struttura che scarica il peso. Il rivestimento è realizzato con totale di 620 fogli di acciaio inossidabile saldati tra loro, che sono stati prefabbricati in un cantiere navale a Stralsun e assemblati in sito. All’interno si apre ai visitatori uno spazio espositivo che gli consente di entrare nel mondo del marchio sportivo. Una rampa ellittica coerente con il principio dinamico di tutta l’architettura del padiglione conduce al piano inferiore.

Londra | Libreria Canada Water di CZWG

Cominciamo dalla fine: la biblioteca comunale di Canada Water a Londra, dispone di un (suo proprio) ingresso alla metropolitana, direttamente dalla porta accanto a quella del caffè, al piano terra. Un dettaglio che la dice tutta su come si progetta, come si integrano le funzioni e come si fa in modo che la gente possa vivere easy il quotidiano laddove, in quel quotidiano, la cultura occupa posto d’onore.

È a forma di piramide rovesciata la biblioteca di Canada Water di CZWG: l’organigramma delle attività è stato ribaltato in sopra/sotto per ottimizzare lo spazio pubblico all’esterno e riservare la superficie maggiore alla lettura e allo studio, all’interno. Così, al piano terra si trova un caffè, colorato, per 150 posti che si apre sul canale, e all’ultimo piano la zona più silenziosa, con le postazioni PC e mini bow windows attrezzate con poltrone e tavolini per una sosta a metà tra lavoro, studio o relax e basta. Al centro il grande occhio della scala a spirale smista ai piani e caratterizza da solo l’intera composizione architettonica dello spazio.

All’esterno il volume scaleno a pianta esagonale, con i fronti protesi, quasi minacciosi, ha un impatto forte ma caratterizza bene l’area (che in realtà chiede a gran voce suggerimenti circa la propria identità). E poi il rivestimento in griglia d’alluminio color bronzo gli dà un tattilità scultorea, riflette luce e alleggerisce tutto.
All’interno domina il colore ambrato del legno e i percorsi a zig-zag tra gli scaffali, che sembrano mobili di casa, ben illuminati, ben disegnati. Alcuni scorci ricordano l’eleganza delle linee di Alvar Aalto. Se l’era digitale ci sottrae libri da toccare, a Londra si costruiscono biblioteche che celebrano quel contatto, gli danno senso civico e comunitario. Germi di urbi-cultura avanzata: esci dalla metro e ti trovi nella zona prestiti tra un salotto e la caffetteria. È tutto lì pronto, basta solo leggerlo.

Autore Emilia Antonia De Vivo.

Carlton | Baker D. Chirico dei March Studio

Panetteria di Carlton d’eccezione, nata dal lavoro congiunto di FODFabio Ongarato Design, dello studio di architettura March Studio, dagli artisti e fashion designer PAM e dallo stesso proprietario Daniel Chirico, il produttore più riconosciuto in Australia di pane artigianale.

Baker D. Chirico brand identity dal gusto retro, gioca con l’omonimia del cognome dell’artigiano con quello del famoso pittore metafisico: superfici a scacchi bianchi e neri, un lettering minimale che richiama spiccatamente quello degli anni ‘20 e ‘30 e una serie di immagini-collage molto ironiche, sempre in bianco e nero.

Interamente arredato in legno e concepito come un granaio a grandi dimensioni con lamelle ondulate in compensato, che coprono la parete posteriore e il soffitto fungendo da scaffalature meticolosamente predisposte per accogliere baguettes lunghe, pagnotte rotonde, panini di diverse forme e dimensioni e altre creazioni, nonché donando un senso dinamico dello spazio ristretto del negozio. Un tagliere gigante di legno si estende lungo tutta la lunghezza del forno con delle tasche integrate per le bilance, i coltelli, i raccoglitori e le casse.

Incentrato sulla contrapposizione tra antica tradizione e artigianato, e il pensiero di un design contemporaneo con un tocco di surreale, il nuovo negozio crea un’esperienza davvero unica e inaspettata.

Foto di Peter Bennetts.

Parigi | Tour Eiffel di Moatti-Rivière

Uno dei monumenti più iconici della Ville Lumière la celeberrima Tour Eiffel subirà un intervento di restyling nel 2013 progettato dallo studio di architettura e scenografia parigino Moatti-Rivière.

I tre padiglioni e gli spazi che accolgono il pubblico in visita al primo piano della torre a 57 m di altezza avevano subìto un restauro ormai trent’anni fa; il comune di Parigi proprietario della Tour Eiffel ha quindi deciso che è arrivato il momento di un restyling per rendere questa superficie di 5000 mq più accattivante per il pubblico che ultimamente sembrava preferire i piani superiori della torre.

I due padiglioni esistenti: il padiglione Eiffel e Ferrié saranno ricostruiti, diventando il primo una sala polivalente per conferenze, spettacoli ed eventi di vario tipo, mentre il Ferriè ospiterà negozi ristoranti e un percorso espositivo. Anche il padiglione che ospità il ristorante 58 Tour Eiffel subirà anch’esso un restyling, che lo uniformerà all’estetica degli altri due padiglioni. Il perimetro dell’apertura centrale avrà un “pavimento” di vetro che sarà impiegato anche per le balaustre regalando così il brivido di sentirsi sospesi nel vuoto. Il progetto dovrebbe far registrare un netto miglioramento anche dal punto di vista della sostenibilità, il progetto riducendo le emissioni di carbonio, migliorando l’accessibilità.

La ristrutturazione è stata progettata dagli architetti Moatti-Rivière, insieme all’impresa Bateg (Vinci Group) per la costruzione. Il progetto è in mostra alla tredicesima Biennale dell’architettura di Venezia presso lo spazio Lightbox.

Londra | Clapham Library dello Studio Egret West

C’è un nuovo edificio nella High Street di Clapham, cui sembrano affidarsi le speranze di un rilancio reale dell’area e dell’intero quartiere, per vitalità sociale e qualità residenziale. Occupa il sito del vecchio Mary Seacole Building: conta 136 appartamenti –di lusso- distribuiti in tre torri cilindriche (la più alta raggiunge 12 piani), un centro medico d’avanguardia e una biblioteca –di quartiere- estremamente attraente.

Forma plastica, colore-non-colore bianco latte brillante (grazie ad un aggregato minerale presente nella miscela); forma “moderna” che stacca di netto col resto e con le file di case a schiera vittoriane. Un contrasto che ne esalta reciprocamente il valore. Bianco prevalente anche all’interno. La pianta della biblioteca è di forma ovale e lo spazio si sviluppa per una altezza totale di 10 m, intorno ad una spirale le cui pareti sono letteralmente foderate di libri (20.000), tutti accessibili al pedone della rampa. Lungo il percorso si incontrano gli studios: salette di lettura e riunione attrezzate di postazioni PC.

Il tema geometrico è ben collaudato in dimensioni e temi di certo più sofisticati come il Guggenheim o le ripetute varianti di Foster come la rampa bianca della biblioteca del LSE ad Holborn. Qui, invece, tutto si ridimensiona a misura di bambino, tutto assume un’aria domestica, confortevole, di sosta, più che studio vero e proprio. Il centro della spirale è la grande sala comune dove di solito giocano i bambini (o leggono, o si intrattengono); uno spazio che può diventare sala eventi, concerti, feste o luogo per altre idee dei vicini di quartiere. La falsa prospettiva degli spazi costruiti sulle proporzioni dei bambini è spiazzante e divertente, ti fa sentire un gigante e rende tutto enorme.

All’esterno la Biblioteca è segnalata con l’artificio di un “lettering” di scala urbana affidato all’artista Andrew Logan che vive proprio a Clapham. La sua idea è stata vincente: ha invitato la gente a portare oggetti di uso comune (ma di particolare “affetto” personale) e li ha incastonati nei mosaici che rivestono le grandi lettere tra specchi e vetri colorati. Mentre ero lì una ragazzina mostrava a suo padre il guscio del suo vecchio blackberry incastrato nella lettera Y.

I lavori dello Studio Egret West sono ironici e attenti allo spazio sociale. Sono loro gli autori del muro decorato con i pesci in titanio nella piazza di Stratford; e poi Egret era partner di Will Alsop ai tempi della biblioteca di Pekham. Nelle torri di Clapham High Street c’è qualcosa in più. Le curve nette ma delicate riportano al centro il potere della (buona) architettura come spinta necessaria per il rinnovamento urbano. Non si può non pensare alla curva d’angolo del “Bonjour Tristesse” di Berlino, progettato da Alvaro Siza per l’IBA del 1984, o alla curva in timpano del Mossehaus di Mendelsohn del 1923, né a quel bianco latte della Einsteinturm di Potsdam, del 1922. Il nuovo edificio di Clapham High Street (ir)rompe nel quartiere con una immagine abbagliante, ribalta tempi e usi della “vecchia” strada e rivitalizza il quartiere di giorno, con uno spazio sociale adatto a famiglie (molte, giovani e spinte qui dagli affitti alti del centro), gente comune e a chi non ha voglia di uscire la sera.

Autore Emilia Antonia De Vivo.

Londra | Coca Cola beatbox di Pernilla+Asif

Architettura sperimentale e tecnologie sonore d’avanguardia, sono il binomio del ‘Coca Cola beatbox‘ progettato dal duo londinese Pernilla Ohrstedt e Asif Khan.

Straordinaria esperienza multi-sensoriale, che prende ispirazione dal messaggio estivo di Coca-Cola per Londra 2012Move to the Beat“, campagna che mira ad avvicinare i giovani alle Olimpiadi, fondendo lo sport con la passione alla musica. All’interno del Padiglione le persone interagiscono con il sonoro: essi, infatti, saranno in grado di produrre una proprio musica remixando il brano ‘Anywhere in the World‘, con l’utilizzo di un caleidoscopio di suoni e campionature prodotti da un giovane team di atleti olimpici di cui Mark Ronson (vincitore del Grammy Award) ha creato il ritmo.

“Abbiamo deciso di prendere i suoni e i ritmi che hanno generato la traccia musicale, per poi decostruirli e diffonderli in giro per il padiglione tra i cuscini sonori che avvolgono l’edificio. Questo permette quindi ai visitatori di ricreare come preferiscono quei loop, interagendo con loro mentre attraversano il padiglione fino alla terrazza superiore” – spiega Pernilla Ohrstedt – “Visitare l’edificio non è mai esattamente la stessa esperienza visto che i paesaggi sonori in cui ci si imbatte durante la navigazione dello spazio, sono in uno stato di flusso costante”.

Foto di hufton + corvo.

Londra | The Filling Station di Carmody Groake

Ancora un’apparizione temporanea: di questa si tiene a dire che è semi-permanente. Assumiamo qui ufficialmente che non è uno dei tanti pop-up della stagione. Di certo è una architettura “a tempo”, smontabile all’occorrenza, cioè quando sarà giunto il turno di quel lotto specifico, per completare le opere previste dal Masterplan di King’s Cross Regeneration.

Carmody-Groake adorano costruire ricordi, ovvero esperienze architettoniche (spaziali) vivibili in un dato momento, da registrare nel proprio personale hard disk e utilizzare poi in differita con l’uso della memoria in rewind, dal momento che è certo: quella architettura presto non ci sarà più (qui si parla di due anni di vita). Potere dell’es-temporaneo piacere di un attimo; è il trucco infallibile per rendere le cose indelebili. Così è stato per Studio East: indimenticabile, un altro dei momenti da condividere con pochi fortunati. Con loro scambiarsi l’intesa dell’ennesimo “io c’ero”, e con gli altri invece, la faccia del “ma di che parli!”.

The Filling Station ricorda ancora il distributore di benzina che era, ma mentre lo pensi non sai più perché lo hai pensato. Non c’è traccia eppure ce n’è: è rimasta la sua trasposizione romantica, evanescente in luce e materia. Si chiude sulla strada si apre sul canale. È totalmente composto dalla ripetizione modulare di un pannello ondulato in vetroresina bianco latte, illuminato a regola d’arte: di sera dall’illuminazione disposta ad effetto, di giorno dal sole che va e che viene. Tutto è giocato sulla trasparenza, sul traslucido che tradisce quel che nasconde e lo riflette in forme inaspettate. Al centro si trova lo spazio di Shrimpy’s il ristorante, protetto verso strada dalla barriera di pannelli che ne filtra i rumori, coperto, ma aperto a corte sul canale. Colpisce la misura dello spazio, l’equilibrio, la sua matematica: se si guarda il sito in pianta, difficilmente lo si assocerebbe ad una architettura così raffinata. Un’opera solida quasi austera, dissimulata nella leggerezza –apparente- della forma.

The Filling Station appartiene al “filone” del “Cultural Dining” cui hanno dato vita quelli di Office of Change, gli stessi di Bistrotheque e Studio East. Di fronte c’è la sede del Guardian dove pare abbiano preso alla lettera l’idea di “mangiare culturale”. Attenzione però a non chiamarlo pop-up!

Autore Emilia de Vivo.

Venezia | Cinema Arcipelago di Ole Scheeren

Cinema Arcipelago nome azzeccato per l’auditorium galleggiante progettato da Büro Ole Scheeren che sarà uno tra i 18 degli eventi collaterali della 13esima Biennale di Architettura veneziana.

L’auditorium galleggiante aveva debuttato in occasione della serata finale del The Film on the Rocks Yao Noi Festival nello scenario mozzafiato della Nai Pi Lae lagoon in Thailandia.

L’auditorium mobile è formata da una serie di moduli tipo zattere assemblate tra loro “come una serie di isolette che formano un arcipelago” ed è interamente realizzata con materiali riciclabili, facilmente smontabile e rimontabile altrove presumibilmente in altri festival cinematografici. Nella location veneziana l’auditorium sarà posizionato nella Darsena grande dell’Arsenale e ospiterà la prima di Against all Rules un documentario prodotto da Horst Brandeburg sulla filosofia di Büro Ole Scheeren e dei sei anni di carriera che lo hanno visto coinvolto in progetti come la CCTV tower a Pechino oltre ai progetti a Bangkok e Kuala Lumpur che sono per dirla con le parole dell’architetto “nuovi prototipi che rispondono alle sfide del mondo che cambia”.

L’architetto tedesco Ole Scheeren, classe 1971, ha iniziato la sua brillante carriera presso il celebre studio Oma ed è diventato a solo 31 anni il responsabile dei progetti di Oma nel continente asiatico per poi aprire nel 2010 il suo studio a Pechino che porta avanti numerosi progetti in tutta l’Asia.

St Emilion | Chateau cheval blanc di Potzamparc

I proprietari della rinomata casa produttrice di vini Chateau Cheval Blanc hanno incaricato il famoso architetto francese Christian di Potzamparc (classe 1944) di rinnovare la loro sede storica a Saint Emilion, piccolo comune di 2.000 anime – patrimonio Unesco – che si trova nella valle della Dordogna importante zona vinicola del comprensorio di Bordeaux.

Da lontano sembra di vedere una vela bianca dolcemente appoggiata sopra i vigneti. Il nuovo stabilimento si trova al di sotto di questa immensa struttura in cemento armato con un tetto giardino sul quale salire e passeggiare su delle fantastiche passerelle di legno per godere la vista sulla distesa sterminata di filari d’uva. Alcuni l’hanno paragonata anche ad una collina. La struttura interamente in c.a. vanta sei muri portanti curvilinei connessi da una serie di travi trasversali. La vela sovrastante è appoggiata in modo tale da far filtrare la luce naturale.

Quella che era l’orangerie del castello ora funziona da reception ed è connessa al nuovo progetto tramite una sorta di corridoio interamente vetrato. Il corridoio introduce alla cava, il volume più grande del progetto, dove troviamo 52 fusti per il vino fatti su misura e allineati tra loro in modo da scandire lo spazio in maniera regolare. Troviamo poi una corte aperta, un’area adibita a diversi scopi tra cui smistare e che fa da anticamera alla sala degustazioni: un ambiente elegantemente rivestito in legno. La vera cantina è proprio al livello sottostante e ha un soffitto di travi di cemento ondulate sostenute da una serie di colonne circolari che contiene circa 566 botti. Da notare i muri di mattoncini mashrabiya che favoriscono la ventilazione e allo stesso tempo nascondono i componenti meccanici.

Immagine © Erick Saillet e di Christian de Portzamparc.

Londra | Wahaca di Softroom Architects

Londra non è nuova all’uso dei container come luogo (progettato) da abitare: Container City nel Trinity Buoy Wharf di Tower Hamlets testimonia oggi, quanto abbia funzionato l’idea che più di dieci anni fa, nel 2001, fece sorridere come alla vista di un giocattolo destinato a breve vita.

Il pop-up restaurant commissionato da Wahaca a Softroom Architects testimonia (oggi) che l’uso dei box container è ormai invalso per assolvere le più disparate funzioni; e non fa certo sorridere di “compromesso”, anzi. Il box container è apprezzato per la sua propria versatilità compositiva, come unità spaziale minima-indivisibile, per questo autosufficiente. Il container con le sue dimensioni standard, immodificabili diventa un “vincolo” creativo, un modulo progettuale bell’e pronto, da cui partire per lavorare sul tema dell’aggregazione più che sul dimensionamento geometrico dell’architettura. Il risultato visibile –e attraversabile- nel ristorante di Wahaca a Southbank, lo testimonia appieno.

In soli due ordini sovrapposti di otto contaniner in linea si sperimenta una sequenza di spazi e funzioni estremamente variegati, per attività e ambientazioni. Ci sono le sale ristorante al piano terra e c’è l’area lounge al primo piano, in terrazza e al coperto, attrezzata con sedute da living room nuove, e anche riciclate. Alle pareti murales di artisti messicani. Un disimpegno vetrato centrale collega le due file di container, accoglie il corpo scala e illumina l’insieme con luce naturale. I container colorati di Wahaca resteranno “agganciati” alla Queen Elizabeth Hall, a Southbank Centre, da luglio a settembre, pronti ad un nuovo “riciclo” in un altro luogo del mondo.

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