Prendiamo un caffè al vulcano? Il Knoll Ridge Cafè, di Hurris Butt Architecture, è sul monte Ruapehu, il vulcano attivo più grande della Nuova Zelanda.
Il valore del caffè in questo caso può coincidere con il posto in cui viene degustato: la posizione remota, la vista che da quella quota decolla, la morfologia aspra del sito. Le stesse ragioni, oltre il caffè, sostanziano il valore del progetto. L’architettura prende forma -prima di ogni cosa- dalla ricerca delle soluzioni più appropriate e convenienti ai problemi di organizzazione logistica.
Dalle fondazioni al montaggio degli infissi, il progetto evolve attraverso una costante verifica di fattibilità delle fasi di costruzione, in un continuo feedback tra l’idea architettonica e l’effettiva possibilità di renderla nella sua purezza, al momento della realizzazione. Preoccupazione ovvia sempre, ma in un posto come Ruapehu, l’ovvietà non è categoria contemplata. Arrivarci è difficile, costruire qualcosa su un terreno così ripido lo è di più. Farlo in tempo, prima che la stagione delle nevi possa intervenire a immobilizzare tutto, è la sfida dell’uomo sulle stagioni –imprevedibili- della natura. Si decide così di compiere la mission impossibile tutta con l’aiuto di un elicottero.
<L’intero edificio, dalle travi di fondazione, ai pannelli a pavimento alle sezioni del tetto e delle finestre, è stato suddiviso in un sistema modulare di pannelli, in modo da consentire il trasporto, il posizionamento e il montaggio sul posto, tutto in elicottero. La maggior parte dei componenti è stata progetta accuratamente per non superare il limite di carico elicotteri pari a 800kg>. Questa la logistica. E poteva bastare per apprezzare la perizia costruttiva ad alto contenuto tecnologico e la particolare sensibilità all’impatto ambientale del progetto. C’è di più. Come raramente succede, le istanze (e le soluzioni) pragmatiche nel Ridge Knoll scompaiono, per dissolversi nei valori alti dell’architettura, dove spazio e luce vanno dritti alle corde emotive della percezione, anche quella più distratta.
C’è il prodigio tecnico della piattaforma a sbalzo nel vuoto; c’è la tattilità del legno, scelto come materiale prevalente (e mai declinato in stile convenzionale da baita montana); intere pareti sono trattate a vetro in taglio termico al 100% (calibrate per un vento fino a 200km/h e temperature sotto zero). Grazie a questo, ma oltre questo, l’edificio diventa un guscio leggero da cui esperire il contatto ravvicinato con la montagna. Il paesaggio è il vero “perimetro” del luogo, mai sopraffatto da tentazioni gestuali di maniera. A est il Ridge Pinnacle, e poi le pareti rocciose (o innevate) di origine vulcanica e poi lo strapiombo a vertigine dal quale il Knoll sembra voler spiccare il volo. L’ambizione del progetto di raccogliere ogni fuga prospettica intorno come in un caleidoscopio, sembra riuscita in pieno.
Il Ridge Knoll è (anche) il punto di ristoro del Campo Sci Whakapapa, nel Parco Nazionale del Tagariri, ma questo è secondario. Il viaggio può durare un giorno intero al cambiare della luce, seduti a leggere o per un caffè al Ridge Knoll.
Autore: Emilia Antonia De Vivo.
Foto di Simon Devitt
La casa della fotografia di Londra ha riaperto la sua sede ufficiale a Soho dopo due anni di lavori di O’Donnel & Tuomey Architects. Il nuovo edificio nasce letteralmente da quello vecchio, sembra spuntargli da dentro, come se il precedente l’avesse da sempre contenuto.
Il progetto originario prevedeva la delocalizzazione dalla originaria fabbrica tessile di Ramillies Street in cui si trovava, ma per ragioni di budget fu deciso di intervenire sull’edificio esistente. Il nuovo volume sembra esprimersi in un cambiamento cinetico, dall’edificio in mattoni rossi alle aggiunte soprastanti sagnate da superfici compatte grigio antracite. Si leggono le tensioni di quel cambiamento, i mutui aggiustamenti, come in un dialogo tra due organismi nel farsi posto l’un l’altro: negli spazi, nelle prospettive, nel disegno delle facciate, nelle superfici, come in una crescita, in un cambio di pelle.
L’immagine d’insieme è minimale nelle geometrie: il “combattimento” tra l’edificio ospite e l’intruso si risolve in giunti e accostamenti di particolare delicatezza. La visione può anche scindersi, che si decida di guardare solo le masse grigie o solo il basamento in mattoni rossi. Colpisce su tutto l’armonia con cui si conclude in sommità l’incastro tra i volumi, dove la parete finestrata a doppia altezza, ricalibra le masse con la trasparenza del vetro, e rimanda a un grande obiettivo puntato sul paesaggio urbano. Il contrasto cromatico attrae fin da su alle scalette di accesso a Ramillies Street da Oxford Street; anzi, ora nelle pareti vetrate dell’edificio ad angolo, si specchia il richiamo dell’insegna bianca in fuori scala: tutto torna, tutto si tiene quando nei dettagli inaspettati ricompare la qualità del pensiero architettonico. È lecito pensare ad una lettura “fotografica” operata dal progetto sul contesto urbano. Il grande taglio vetrato al piano terra “inquadra” letteralmente lo spazio interno del caffè e l’incrocio tra le strade lì davanti, l’uno verso l’altro.
Il “Digital Wall” disposto in mega schermo sulla parete all’ingresso è totalmente leggibile dall’esterno, si “inquadra” nella vetrata, può essere osservato comodamente anche da lì, mentre racconta l’evoluzione della fotografia dalle reflex al mondo digitale. Nelle gallerie ai piani superiori vale lo stesso. Gli spazi espositivi opportunamente calibrati in oscurità prevalente per valorizzare le opere esposte, si aprono (inquadrano) sulle strade sottostanti in una proiezione che nella penombra acquista forza magnetica, attrae allo stesso modo di una mega stampa esposta alle pareti. Il gioco a tre livelli per quota, spazio e materiali che si scorge percorrendo le scale tra il terzo e il quarto piano vale tutta la composizione. C’è dentro la percezione in movimento (la scala), la vista dall’alto dello spazio espositivo (dietro la vetrata delle scale, ma ancora interno) e poi le finestre del palazzo di fronte e la strada più giù, oltre la seconda parete vetrata. Una sequenza di spazi e “filtri” ad effetto spiazzante come la lente ottica di una macchina fotografica.
Autore: Emilia Antonia De Vivo.
Quinta significa fattoria. E Quinta do Vallado a Peso de Regua, in Portogallo, deriva da antiche discendenze. Oggi se ne conta la sesta, da quando Antonia Adelaide Ferreira, pioniera businesswoman dell’Ottocento portoghese, ristruttura l’azienda vinicola di famiglia, con un programma di investimenti per sofisticati sistemi di vinficazione, tra i più avanzati dell’epoca, importati direttamente dall’Inghilterra. João Ferreira Álvares Ribeiro è il pioniere di oggi e il suo progetto culturale per Quinta do Vallado lo dimostra appieno: laddove c’era la cantina, oggi c’è la Winery, estensione realizzata nel 2007; alla vecchia casa colonica, oggi c’è accanto il Winery Hotel, inaugurato lo scorso marzo. Fabrica e relax insieme: da una parte la passione (e la fatica) di produrre buon vino, dall’altra il modo migliore per gustare vino e tempo libero. “I due filoni legati al vino – la produzione e il tempo libero – sono trattati in un unico progetto con un linguaggio distintivo e contemporaneo”.
Il carattere discreto, semi-ipogeo della cantina ritorna nel progetto dell’hotel. Il paesaggio è celebrato al massimo della sua bellezza (luogo da cui guardare e panorama che si lascia osservare), come in una forma di gratitudine, per aver generato i vitigni ed aver accolto la storia stessa della famiglia Ferreira. In quel punto si incontrano due fiumi: il Corgo e il Douro; hotel e cantina si affacciano sul Corgo dai terrazzamenti che tagliano la collina verso valle.
I volumi sono pensati come la rappresentazione scultorea di quelle terrazze: ci si incastrano dentro e le traducono in massicci volumi di pietra grigia. Le qualità sensoriali delle superfici diventano il mezzo per comunicare al tatto l’ambiente naturale in cui ci si trova. Le linee dell’impianto seguono le regole del terreno, senza mai abbandonarle, anzi utilizzandole come occasioni per disassamenti prospettici sapienti che tagliano scorci inaspettati verso valle, o creano insospettabili percorsi/cortile lineari, sul retro, a contatto con la scarpa del declivio. I tetti sono piazze o strade che proiettano lontano lo sguardo. Nessuna concessione ad articolazioni di forma gratuite o modanature d’ornamento, il linguaggio contemporaneo dei volumi puri, netti in ogni spigolo, dichiara nella propria artificialità, la volontà di comporre l’azione dell’uomo nella natura, nell’ambiente riconosciuto come dominio assoluto.
“Su questa relazione, tra ciò che esiste e ciò che non esiste, tra gli edifici e la topografia, si trova la tensione del progetto, il rapporto conflittuale tra due realtà, tra due geometrie: della natura e della architettura”.
Autore: Emilia Antonia De Vivo.
Questo fine settimana a Roma c’è Open House, organizzato dall’Ass. Open City Roma. Primo appuntamento in Italia di un’iniziativa nata a Londra, il Open House Worldwide.
L’evento è aperto al pubblico con visite guidate a piedi o in bici e gratuite alla scoperta della Città Eterna e, con l’eccezionale partecipazione di celebri progettisti, che per l’occasione guideranno personalmente alcune visite.
Il programma è sia cartaceo che virtuale, grazie ad un’applicazione smartphone.
Più di 140.000 visitatori e centinaia di installazioni luminose hanno animato le notti di Francoforte. Dal 15 al 20 aprile, Luminale 2012 – Biennale of Lighting Culture – ha trasformato una città in un’esplosione di colori. Ovunque, installazioni luminose che avevano per tema la Luce e in concomitanza, non a caso, il Light + Building, la fiera internazionale dell’illuminotecnica.
Il tutto tra sogno ad occhi aperti e vetrina urbana dell’innovazione: un momento di interazione sociale tra i luoghi e i soggetti che li attraversano, dove in mezzo c’è il dialogo della luce in tutte le sue accezioni e differenti espressioni, da quelle più elementari e consuete, come il fuoco, le ombre, fino agli ultimi ritrovati della tecnica, come i LED organici.
Sorprendente è stata l’opera Time Drifts, dell’artista berlinese Philipp Geist, che ha esplorato il contrasto tra volatilità del tempo e delle parole a fisicità delle cose.
Con la guida del loro “istruttore” Matthias Hollwich, gli studenti Andreas Tjeldflaat e Greg Knobloch della Wharton School of University of Pennsylvania – Facoltà di Design hanno proposto un progetto alternativo e rivoluzionario all’impostazione architettonica di carcere tradizionale, negli Stati Uniti.
499.SUMMIT è il risultato di uno sguardo critico focalizzato su di un grattacielo urbano penitenziario: tre torri a forma di arco che si intersecano in verticale, offrendo e sviluppando una soluzione di aiuto ai detenuti per una transizione di successo al rientro nella società.
Mentre la letteratura recente inizia a mettere in discussione l’impatto sociologico delle carceri, causa la difficile gestione del sistema carcerario americano, il progetto di questi due studenti potrebbe essere una risposta e un incentivo per una richiesta sempre più disperata di innovazione e re-immaginazione del “detenuto”.
Blade Runner non è solo un film ma una forma d’ispirazione ad un’architettura reale e possibile per il prossimo futuro, così è stato per il giovane architetto egiziano Ahmed Elseyofi di IAMZ design studio.
10.000 mq di grattacielo concettuale per unità residenziali a New York, dal nome un po’ poetico e fantascientifico “World of chlorophyll“. In imitazione alla natura, l’idea è che le abitazioni individuali assumono la forma di singole foglie, derivate dalla colonna centrale come per una pianta.
Neanche a dirlo, lo studio è focalizzato per che il tutto sia fatto in modo da implementare le considerazioni sull’impatto ambientale con caratteristiche di ventilazione naturale e penetrazione della luce solare con illuminazione diretta, come la clorofilla fa nella pianta per fotosintesi.
Stazione Wiroa è una sala per la degustazione del vino esclusiva per i residenti di Bay of Islands, progettata dagli MAP Architects. Una piattaforma inserita sulla collina e nelle vicinanze di una piccola lingua di spiaggia nel lontano nord della Nuova Zelanda.
Il design adotta un approccio minimalista, in quanto è costituito da muri di cemento per lo più non trattati e il pavimento in legno. Un lungo tavolo offre spazi per il vino e un muro di cemento per l’assortimento di bottiglie. La parete di fronte all’oceano è lasciato completamente aperto (o vetrato), consentendo ai visitatori di sperimentare il pieno effetto dell’ambiente.
Un progetto di 25m2 che ha utilizzando il vernacolo locale dei bunker di guerra costieri da intendersi a migliorare la fruizione dell’ambiente con la degustazione in tutto relax di vini.
Poto @ Brian Cully.
Progettato dall’architetto brasiliano Isay Weinfeld, il Square Nine Hotel di Belgrado, in 5 anni e con più di 30 milioni di euro si è trasformato da brutto anatroccolo ad un bellissimo cigno. Situato nel quartiere storico della città, è il primo world-class hotel di lusso dagli interni sofisticati e dai dettagli maniacalmente rifiniti così come dall’impeccabile servizio.
Luogo ideale per viaggiatori d’affari e di piacere che vogliono sperimentare un servizio incomparabile e dove il personale fa sentire tutti come ‘benvenuti‘. La grande lobby è arredata da una notevole collezione di mobili d’epoca in stile danese moderno risalente dal 1930 al 1960, che ha richiesto tre anni di ricerche, più tappeti intessuti a mano, foto bianco e nero, che aggiungono una buona dose nostalgica dei tempi passati.
45 eleganti camere da letto di cui 15 sono suite da 90 mq che occupano cinque piani dell’edificio e ognuna con pavimenti in legno Cumaru originale, pietra calcarea portoghese, coperte in cashmere, biancheria Pratesi e articoli da bagno firmati Hermes.
Hotel Madera, nome “spagnoleggiante” che lascia poco spazio ai dubbi, è il primo progetto in Asia dei La Granja, studio di design con sede a Barcellona.
Un’oasi di calma e calore Mediterraneo nel trambusto cittadino su quattro piani di nuova costruzione a Kowloon, un quartiere di Hong Kong e, probabilmente, il luogo con la più alta densità di popolazione del pianeta.
Nove suites uniche e inconfondibili 100% Lagranja, full optional realizzati in esclusiva: comodini ricavati da tronchi di quercia, cucchiai di legno intagliati a mano come elemento decorativo e feticcio in dono per gli ospiti, pareti per i corridoi con grandi lampade, una palestra, il tutto per un luogo dall’atmosfera serena e amichevole, al tempo stesso contemporaneo e classico con innesti asiatici e latini insieme.